Dalla tesi alla produzione di borse personalizzate

Così nasce un brand che esporta anche in Giappone

Una laurea in Disegno Industriale, una tesi sull’accessorio borsa, qualche anno al lavoro presso studi di architettura e infine, dopo un viaggio in Giappone, la decisione di creare una propria linea di borse personalizzate, Ochobags. Così Arianna Vivenzio, 34 anni di Roma (ma originaria di Bari), si è inventata un mestiere artigiano e oggi esporta anche in Estremo Oriente.

Arianna, raccontaci qualcosa in più della tua linea di borse Ochobags…
«Ocho è una linea di borse artigianali che hanno la peculiarità di essere scomponibili e personalizzabili. Composte da più borselli di diverse misure e materiali, è possibile sganciare ogni singolo componente, oltre alle tracolle e ai moschettoni. È un modo diverso di concepire la borsa: un oggetto pratico ma fashion, con compartimenti variabili e funzionali che possano contenere e separare ogni oggetto che una donna porta con sè».

E il nome da cosa deriva?
«Il nome Ocho è nato perché in italiano “ocho” è usato anche per dire “occhio”, e gli occhi/occhielli sono la caratteristica su cui gioca la borsa. E poi la parola ha le “oo” che sembrano 2 occhielli».

Come hai deciso, dopo la laurea, di dedicarti alla realizzazione di borse e accessori?
«Tutto è partito perché la mia tesi di laurea è stata la progettazione di una borsa modulare, in cui il tema forte era proprio quello di separare gli oggetti nei vari scomparti per poter tenere in ordine e organizzato il contenuto. Dopo la laurea la tesi è stata messa da parte perché la necessità è stata quella di iniziare a lavorare presso studi e fare la mia doverosa gavetta di progettista, gli anni sono passati disegnando, progettando e renderizzando per gli studi di architettura. Tuttavia iniziava a starmi stretto il ruolo di disegnatrice tecnica, avevo voglia di creare qualcosa di mio, un oggetto bello e funzionale, fashion ma non legato alla moda del momento. E così nel 2006, dopo un bellissimo viaggio in Giappone dove ho conosciuto un po’ di quel gusto e di quell’armonia nipponici nella grafica e nei tessuti, sono rientrata con tante stoffe, kimono e stampe, e la voglia di creare la mia linea di borse».

Come hai imparato a realizzare borse a mano?
«Subito ho cercato qualcuno che realizzasse per me il progetto che avevo in testa, quanto mai complicato perché non avendo un budget e non sapendo da che parte iniziare ho messo un annuncio su internet per cercare una persona che sapesse cucire, ed è stata una delusione. Mi sono detta “Qui mi devo rimboccare le maniche e devo farmele da me”, e cosi è stato! Avevo ricevuto una macchina da cucire per la tesi come regalo delle mie amiche, non l’avevo nemmeno mai accesa, giuro! Ma la necessità aguzza l’ingegno e così dopo i primi errori/orrori in cui le Ocho erano borse storte e poco pratiche, ho imparato a realizzare cuciture precise e a scegliere materiali idonei e resistenti. Le prime Ocho (pezzi ormai ridotti a brandelli sono ancora in circolazione) erano realizzate con i primi tessuti acquistati in Giappone e sicuramente hanno un valore sia affettivo che materiale molto forti».

Oggi che materiali utilizzi e dove li reperisci?
«Mi hanno sempre affascinato i banchetti con scampoli, le tappezzerie, gli store di bricolage, i tessuti tecnici. Ma uso anche tessuti vintage, cotoni giapponesi,serigrafie personalizzate, fantasie floreali, materiali riciclati, tappezzerie, e di recente persino buste da spedizione della nota compagnia Fedex. Spesso mi rifornisco presso fabbriche specifiche della Puglia o acquistando alcuni tessuti particolarmente originali attraverso le fiere del settore».

Quali macchinari e tecniche adoperi?
«La macchina da cucire è sempre la stessa da anni, non mi abbandona ancora, e il torchietto è ciò che serve per inserire gli occhielli. Se devo creare stampe personalizzate creo i pattern che vado a far stampare da appositi centri stampa e applico sui miei tessuti. Ultimamente mi affianca un laboratorio specializzato che mi confeziona le borse per le richieste più urgenti che implicano prodotti più seriali, ma le linee sperimentali, quelle cioè in cui utilizzo materiali particolari come camere d’aria, tappetini antiscivolo, buste di spedizioni, tessuti delicati o portati da clienti, le creo ancora con le mie mani in atelier».

Quali sono stati gli step necessari per aprire un laboratorio come il tuo?
«Gli step che ho seguito sono stati: depositare il brevetto del prodotto e successivamente depositare il marchio e iscrivermi alla Camera di Commercio come artigiana, dotandomi di partita iva. Purtroppo bisogna avere inizialmente un sostegno economico da parte di un finanziatore che nel mio caso è stata la mia famiglia, cosi da poterti aiutare a muovere i primi passi nel mondo del commercio. Certamente le conoscenze di amici fotografi o web designer possono essere una spinta in più per strutturare meglio il marchio dal punto di vista anche della comunicazione, mentre partecipare a fiere del settore o market di creativi accresce il numero di clienti e ti permette di confrontarti con chi fa il tuo stesso mestiere. Pubblicizzarsi su internet o sui social network per la promozione e scrivere sul proprio blog diventano fondamentali per reperire clienti anche oltre frontiera».

Indicativamente che investimento occorre per avviare un’attività come la tua tra locali, burocrazia, strumenti?
«Effettivamente un vero e proprio business plan non l’ho mai fatto, ma è molto importante se si decide di cercare i finanziamenti. Potrei dire che tra i 10 e i 20 mila euro dovrebbe essere un budget iniziale idoneo per essere sicuri di partire con il piede giusto ed affidarsi ad agenzie di comunicazione e figure commerciali per la vendita».

Il tuo titolo di studi ti torna utile e se sì come?
«La mia laurea in Design mi è tornata utile sicuramente dal punto di vista pratico dello sviluppo prodotto e grafica, ma purtroppo non dal punto di vista commerciale e di marketing, che oggi sono le competenze fondamentali per avere successo sul mercato».

Mentre studiavi avresti mai pensato saresti poi diventata artigiana?
«In realtà le idee all’università erano un po’ confuse, c’era una visione più industriale dei processi produttivi, per cui non mi sarei mai sognata di creare i prodotti “da me”, si disegnava e prototipava solo virtualmente, non c’erano ancora le stampanti 3D, ma è stata questa necessità di sperimentare e di volersi sporcare le mani che mi ha dato la possibilità di sfociare nell’artigianato».

Come ti promuovi?
«La Rete e le pubblicazioni sui social media sono fondamentali, senza di loro non sarei riuscita a farmi conoscere e penso che ancora ci sarebbe da fare moltissimo per sfruttare al meglio le potenzialità del web e dei social».

Riesci a vendere anche oltre confine?
«Attualmente vendo le Ocho in Giappone ma continuo a rimanere un piccolo brand che soddisfa produzioni limitate dove l’artigianalità e l’originalità rimangono alti».

Redazione

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